È finalmente sbarcata su Netflix The Midnight Club, serie basata sull’omonimo romanzo di Christopher Pike e figlia della proficua collaborazione tra la piattaforma streaming e Mike Flanagan, già la mente dietro The Haunting of Hill House, The Haunting of Bly Manor e Midnight Mass.
La nuova serie TV di Flanagan (Regista di Hill House, Bly Manor e Midnight Mass), che detiene già un record a livello mondiale, si prende, come sempre, tutto il suo tempo nel primo episodio per introdurre i nuovi personaggi e la nuova abitazione.
Basato sul lavoro dell’autore dell’horror young adult Christopher Pike, The Midnight Club è ambientato in una clinica per ragazzi malati terminali. Ogni notte, a mezzanotte, gli otto pazienti si riuniscono per raccontarsi storie di paura. La serie ha debuttato un anno dopo la miniserie Midnight Mass, sempre su Netflix.
L’incipit introduce il personaggio di Ilonka (Iman Benson), brillante diciottenne che all’improvviso scopre di avere un cancro alla tiroide. Con i dottori che le lasciano poche speranze di guarigione, Ilonka si mette al computer e scova Brightcliff Hospice, una residenza per adolescenti malati terminali dal passato oscuro, gestita da un’enigmatica dottoressa interpretata dalla leggenda dell’horror Heather Langenkamp. Mentre indaga sui segreti che avvolgono il ricovero, Ilonka entra a far parte del Club di Mezzanotte, ritrovandosi ogni notte nell’ampia biblioteca insieme ad altri cinque pazienti per raccontarsi storie dell’orrore. A unire il club un patto ben più profondo: il primo di loro che morirà dovrà trovare il modo di comunicare con gli altri dall’aldilà.
Una nuova tristezza di fondo
Lungi dall’essere una semplice serie young adult, The Midnight Club è un horror d’autore sofisticato e stratificato che funziona a tutti i livelli. Caratterizzato da una tristezza di fondo, segno distintivo delle più recenti produzioni di Mike Flanagan, lo show è una riflessione sulla malattia, sulla sofferenza fisica e mentale, sull’amicizia e sui legami familiari, ma è anche un excursus sul genere horror e sui suoi meccanismi che usa il racconto nel racconto come espediente di analisi. Le storie narrate dai membri del club, una per episodio, esplorano generi e temi diversi, conservando però una fortissima componente autobiografica che le rende piccole gemme incastonate nell’opera generale. Flanagan, anche regista dei primi due episodi, ce lo mostra chiaramente fin dal primo incontro del Club di Mezzanotte in cui i ragazzi si misurano con una disamina dell’uso dei jump scare come espediente per provocare lo spavento degli interlocutori.
Se la qualità di un’opera horror si misura dal grado di spavento che provoca, The Midnight Club è perfettamente riuscita. La particolare struttura narrativa permette a Mike Flanagan e alla co-creatrice Leah Fong di sbizzarrirsi, attingendo a piene mani ai classici del genere e alternando ghost story, slasher e detective story con qualche strizzata d’occhio al sottogenere demoniaco. Il tutto condito con jump scare, visioni, apparizioni mostruose e voci dall’aldilà, un ricco campionario usato con grande maestria e mai in modo gratuito. Accuratissima la costruzione della suspence, alleggerita da brevi pause in cui vengono approfondite le relazioni tra i personaggi, ma Flanagan non molla mai la presa e quando ci sembra di poterci rilassare ecco che l’orrore torna a fare capolino.
Come sempre si gioca con la psiche umana, caratteristiche dei racconti del regista, che scava sempre molto affondo a questo tipo di discorso. Se le tematiche principali della serie horror tratta del romanzo di Christopher Pike sono sicuramente in linea con quelle delle due meravigliose stagioni di The Haunting, che ricordiamo come storie di fantasmi e di umano dolore, la loro trattazione rimane spesso troppo in superficie e solo in alcuni rari momenti riusciamo a cogliere la profondità dell’esperienza vissuta dai protagonisti. Con il fantasma incombente della morte presente in ogni scena, ci aspetteremmo che in The Midnight Club il tema del lutto e dell’ingiustizia di una fine così precoce fossero trattati con la sensibilità che abbiamo visto nelle altre produzioni di Flanagan, e invece spesso e volentieri la serie si accontenta di fare il minimo indispensabile, di nominare il dolore e la paura piuttosto che mostrarli, togliendo alla storia un elemento che sarebbe stato fondamentale per attribuirle la sensibilità di cui aveva così disperatamente bisogno. Ci sono momenti toccanti e non si può negare che, soprattutto con la storia di Anya (Ruth Codd) e quella di Natsuki (Aya Furukawa), si intraveda anche in questo adattamento dell’opera di Christopher Pike un potenziale altissimo dal punto di vista dell’evoluzione psicologica dei personaggi e dell’impatto che ha sulle loro vicende, tuttavia una gestione non brillante dei tempi narrativi e qualche sbavatura di troppo nella trama orizzontale rendono The Midnight Club un prodotto che non raggiunge mai del tutto quello che potrebbe essere il suo livello.
Per quanto riguarda l’elemento horror, The Midnight Club fa uso di due differenti strategie: nella storyline orizzontale vi è un’abbondanza di jumpscare, tra fantasmi che appaiono da un momento all’altro e ascensori che prendono vita, mentre i racconti, pur molto diversi da loro per toni e tematiche, fanno paura perché si rifanno all’immaginario del perturbante, di ciò che dovrebbe essere familiare e invece non lo è. Questa alternanza funziona solo in parte, ma è sicuramente uno degli aspetti più interessanti della serie, che in alcuni rari momenti riesce nell’ambizioso duplice obiettivo di terrorizzare e inquietare, lasciando lo spettatore paralizzato dalla paura. Questi risultano essere non troppo esagerati (nonostante ne abbia vinto il record), ben equilibrati e inserti nel ritmo della narrazione nei momenti giusti, senza mostrare troppo e lasciando curiosità allo spettatore.
Questo club segreto di racconti di paura affascina e non poco; lascia molti punti di interrogazione su come procederà la trama, impedendoci di staccare gli occhi dallo schermo. La ricchezza narrativa, la vivacità delle trovate e i personaggi vividi e vari avvincono lo spettatore sempre più attratto dai misteri che si celano a Brightcliff Hospice e nei fitti boschi circostanti (la serie è girata in British Columbia). Interni ed esterni sono valorizzati da una fotografia duttile e da una regia al servizio della storia, meno descrittiva ed estatica rispetto a quella di Midnight Mass, ma più focalizzata su personaggi e atmosfere. Gli ingredienti si amalgamano alla perfezione in The Midnight Club, ma il merito principale di Mike Flanagan è quello di riuscire a trattare un tema delicato come la malattia evitando inutili pietismi, ma raccontando la sofferenza con quella lucidità e schiettezza tipica della gioventù. Una boccata d’aria tra un brivido (di paura) e l’altro. La serie fa anche riferimento a Doctor Who, con una citazione da non perdere.
La serie di Flanagan è molto azzeccata nella scelta dei suoi protagonisti e nel crescendo che a un certo punto arriva anche a comprendere un rituale pagano propiziato da una vicina naturalista – mai nessuno è sembrato così minaccioso con in mano dei ramoscelli come lei. L’unica pecca, se proprio se ne deve trovare una, è un finale che, vista la premessa piena di morte e disperazione, rimane un po’ sottotono. I suoi ultimi minuti sono chiaramente la strada preparata per ulteriori episodi, ma tutta l’attesa che si era creata fin dall’inizio rimane un po’ insoddisfatta. Non del tutto, però. The Midnight Club è una grande serie e riconferma l’abilità di Mike Flanagan nel genere horror.