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L’oceano nascosto nel mantello terrestre: nuove scoperte e vecchie certezze da rivedere

A prima vista, la crosta terrestre sembra contenere tutto ciò che riguarda la nostra esperienza con l’acqua: mari, fiumi, laghi, piogge, nebbie e ghiacciai. Ma da qualche anno, alcune scoperte geologiche e sismologiche stanno cambiando radicalmente questa percezione, spostando il centro di attenzione verso qualcosa di molto meno visibile, eppure immensamente più vasto: un enorme serbatoio d’acqua situato a centinaia di chilometri sotto i nostri piedi. Questo oceano nascosto nel mantello terrestre, rilevato grazie alla combinazione di studi sismici, mineralogia sperimentale e l’analisi di inclusioni diamantifere, potrebbe contenere una quantità d’acqua pari a tre volte il volume degli oceani superficiali.

L’ipotesi non è recente, ma ha ricevuto nuove conferme con lo studio della ringwoodite, un minerale raro che si forma solo in condizioni di pressione e temperatura estreme, tipiche della cosiddetta “zona di transizione” tra 410 e 660 chilometri di profondità. La particolarità della ringwoodite è la sua struttura cristallina, capace di inglobare gruppi idrossilici (OH–), cioè forme molecolari riconducibili all’acqua. Quando il minerale viene osservato in laboratorio o rinvenuto in natura con queste caratteristiche, ciò suggerisce che le rocce del mantello non siano secche come si è a lungo creduto.

Una delle prove più solide di questa teoria è arrivata dall’analisi di un piccolo diamante estratto in Brasile, risalente a circa 640 chilometri di profondità. All’interno del diamante, i ricercatori hanno individuato un frammento di ringwoodite contenente molecole d’acqua. Questo campione è considerato una delle prime evidenze dirette della presenza di acqua in profondità.

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli. Non si parla di oceani liquidi come quelli che conosciamo, ma di un volume distribuito, legato chimicamente alla struttura delle rocce del mantello. In termini pratici, significa che l’acqua sulla Terra non si limita a quanto visibile in superficie o nelle falde sotterranee, ma esiste anche una circolazione profonda, un ciclo dell’acqua che coinvolge i movimenti delle placche tettoniche e le trasformazioni minerali sotto pressioni estreme.

Gli scienziati della Northwestern University, insieme a colleghi dell’Università del Nuovo Messico, hanno approfondito questi studi simulando in laboratorio le condizioni estreme del mantello terrestre. Sottoponendo campioni di olivina, il minerale più comune del mantello superiore, a elevate pressioni e temperature, hanno osservato la trasformazione in ringwoodite e la sua capacità di trattenere acqua. Questa simulazione ha permesso di stimare, con un margine sempre più ristretto, quanta acqua potrebbe essere trattenuta a quelle profondità.

Nel frattempo, l’analisi delle onde sismiche fornisce un’altra conferma. Quando un terremoto si verifica, le onde sismiche si propagano attraverso la Terra in modi diversi a seconda del materiale attraversato. In presenza di ringwoodite ricca d’acqua, le onde rallentano leggermente, comportandosi in modo differente rispetto a quando passano attraverso minerali anidri. Questo comportamento anomalo è stato registrato in più occasioni, suggerendo che la zona di transizione non sia uniforme, ma alterni aree più secche ad aree più ricche d’acqua.

La scoperta ha implicazioni che vanno oltre la geologia. Se l’acqua è distribuita anche nelle profondità della Terra, è necessario riconsiderare le teorie sulle origini dell’elemento stesso sul nostro pianeta. Tradizionalmente si è ipotizzato che l’acqua sia arrivata con le comete o con l’attività vulcanica dei primi miliardi di anni, ma la presenza endogena, già strutturalmente presente nelle rocce del mantello, potrebbe indicare che l’acqua sia sempre stata parte integrante del nostro pianeta. Questo spostamento teorico apre una nuova prospettiva su come la Terra si sia formata, stabilizzata e abbia mantenuto una quantità relativamente costante d’acqua nel tempo.

Durante un convegno internazionale, un geologo americano ha illustrato con precisione come il ringwoodite funzioni come una sorta di spugna geologica. Non si limita a inglobare l’acqua, ma la rende parte del proprio equilibrio cristallino. Durante il confronto, un suo collega ha chiesto se questo potesse implicare variazioni nei cicli geochimici della superficie. La risposta, senza esitazioni, è stata affermativa: «Se esiste un collegamento tra l’acqua profonda e i cicli superficiali, dobbiamo ripensare l’intero schema di distribuzione degli elementi volatili».

In effetti, anche le eruzioni vulcaniche potrebbero essere influenzate da questo ciclo interno. Alcuni vulcani rilasciano quantità notevoli di vapore acqueo, e se questa acqua proviene non solo da sedimenti subdotti, ma anche da questa riserva profonda, allora la dinamica del vulcanismo diventa parte di un sistema più vasto, in cui le trasformazioni mineralogiche, i movimenti tettonici e la distribuzione dell’acqua sono strettamente intrecciati.

La ringwoodite, in questo contesto, diventa una chiave interpretativa. La sua scoperta in natura, all’interno di un diamante che ha percorso oltre 600 chilometri verso la superficie, è l’equivalente di un messaggio conservato nel tempo, un frammento della profondità terrestre che ha superato pressioni e temperature incredibili senza perdere la propria integrità. Gli scienziati che lo hanno analizzato parlano di un’anomalia fortunata, ma anche di un’indicazione precisa: se un frammento così piccolo contiene acqua, cosa si può ipotizzare su interi strati rocciosi ancora inaccessibili?

Naturalmente, lo studio di questo oceano nascosto è ancora agli inizi. Non esistono mezzi tecnici per esplorare direttamente quelle profondità, e le informazioni continuano ad arrivare per via indiretta, attraverso onde sismiche, esperimenti ad alta pressione e analisi mineralogiche. Tuttavia, la comunità scientifica appare sempre più unita nel considerare la presenza d’acqua nel mantello una realtà concreta e non più una speculazione.

Alcuni centri di ricerca stanno ora esplorando la possibilità di simulare lunghi cicli idrologici in laboratorio, usando modelli numerici complessi che tengano conto delle trasformazioni chimiche e fisiche delle rocce. In parallelo, la geochimica isotopica offre nuovi strumenti per capire da dove provenga esattamente l’acqua rilevata nei minerali profondi. I rapporti isotopici dell’idrogeno, confrontati con quelli delle acque superficiali e meteoriche, potrebbero fornire dati decisivi.

Nel frattempo, il dibattito si allarga anche ai planetologi. Se la Terra può contenere al suo interno un simile serbatoio, allora è legittimo domandarsi se altri pianeti rocciosi non abbiano avuto o non abbiano ancora riserve idriche interne. Marte, ad esempio, ha mostrato segni di acqua passata, ma la possibilità che anche il suo mantello contenga ringwoodite o minerali simili, in grado di trattenere acqua, è una questione aperta.

L’oceanografia, la geologia, la mineralogia e persino l’astrofisica si ritrovano così collegate da una scoperta geochimica. In questo scenario, la Terra smette di essere una superficie e diventa un organismo in cui l’acqua, da elemento atmosferico o marino, assume un ruolo più profondo, letteralmente.

Sotto i nostri piedi, a una profondità che nessun esploratore potrà mai raggiungere direttamente, esiste una riserva idrica che sfida le rappresentazioni comuni e impone di riscrivere parti fondamentali della storia geologica terrestre. L’oceano nascosto nel mantello terrestre non è un’invenzione poetica, ma un oggetto di studio concreto, stratificato nei minerali e documentato dalle onde sismiche. Un segreto geologico che, passo dopo passo, sta smettendo di esserlo.

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